Le bombe di Roma

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Sembra un noir, con colpi di scena che tengono incollati il lettore fino all’ultima pagina. Ma a differenza dei romanzi che sono frutto della fantasia dell’autore, quella raccontata nel nuovo libro di Nicoletta Orlandi Posti è una storia dannatamente vera: quella delle bombe che il 12 dicembre 1969 scoppiarono a Roma sull’Altare della Patria, all’ingresso del Museo del Risorgimento e all’interno della Banca Nazionale del Lavoro di via Veneto nelle stesse ore in cui a Milano si consumava la strage di piazza Fontana. Stesso tipo di esplosivo, stesse dinamiche, stessa vana ricerca degli autori materiali: solo per circostanze fortuite non ci furono vittime, ma gli attentati romani furono altrettanto significativi in quella che fu la strategia delle stragi di Stato. Significativi, ma finora poco conosciuti e studiati. Ecco allora che Nicoletta ne “Le bombe di Roma” (Castelvecchi) racconta l’inchiesta e il processo che si è concluso con un nulla di fatto – i responsabili non sono mai stati individuati, mentre persone innocenti hanno trascorso in carcere diversi anni della loro vita pur non avendo fatto niente – attraverso la strana vicenda di Udo Lemke, uno studente tedesco che la mattina del 13 dicembre si presenta alla caserma di San Lorenzo in Lucina a Roma sostenendo davanti ai carabinieri di sapere chi aveva messo le bombe all’Altare della patria.
Udo è un personaggio strano, controverso, se vogliamo imbarazzante e la sua storia ha dell’incredibile. Le la sua vicenda è a tutti gli effetti un giallo sul quale è calato purtroppo in maniera definitiva il sipario.
Partiamo dall’inizio. Udo si presentò in caserma da testimone sostenendo di aver riconosciuto gli attentatori che scappavano pochi minuti dopo l’esplosione dall’altare della patria. Raccontò di essere un hippy che viveva insieme ad altri capelloni nelle catacombe sotto la chiesa di Regina Coeli. Appena sentito lo scoppio uscì e vide fuggire dei giovani che aveva conosciuto qualche settimana prima in un suo viaggio in Sicilia. Gli stessi gli avevano offerto un lavoro che lui aveva rifiutato: gli avrebbero dato un bel po’ di soldi se avesse lasciato delle borse in alcune piazze che gli avrebbero indicato: non era nulla di pericoloso, non si sarebbe fatto male nessuno, ci sarebbe stato uno scoppio e un po’ di caos, niente di più. Al rifiuto di Udo che ritenne la cosa illegale gli fu consigliato di lasciare l’Italia e di non farsi più vedere in giro. Cosa che il tedesco non fece. Tornò infatti a Roma, fu testimone degli attentati e la mattina dopo andò in caserma a raccontare quello che gli era successo.
Da testimone, però diventò fermato. Subito dopo la deposizione si aprirono per lui le porte del carcere: passò dieci giorni dietro le sbarre in qualità di “teste a disposizione” poi anche dai carabinieri gli fu intimato di lasciare l’Italia. Udo andò in Grecia. Nel frattempo le indagini portarono a individuare i personaggi tirati in ballo da Udo: si trattava di giovani fascisti siciliani ma gli inquirenti, a differenza della controinformazione che subito dopo la strage di Piazza Fontana si era messa in moto per scagionare Pietro Valpreda e gli anarchici del “22 marzo”, ritennero che non avessero nulla a che fare con quella storia.
Udo passò una quarantina di giorni in Grecia poi decise di tornare a Roma, ma non appena arrivato nella Capitale venne arrestato. Una signora americana aveva denunciato la scomparsa dei suoi gioielli, la polizia con un mandato di perquisizione li cerca nella stanza dell’albergo appena affittata da Udo, da una sua giovane amica canadese e da un austriaco che aveva conosciuto la sera prima. I poliziotti nella stanza non trovano i gioielli, ma un pacco con dentro nove chili di hascisc. L’austriaco durante la perquisizione riuscì a fuggire, Udo e la ragazza invece vennero arrestati. Dopo quattro mesi di carcere il processo: la canadese venne prosciolta da ogni accusa, Udo fu condannato a tre anni di reclusione per detenzione a fini di spaccio. A quel punto il tedesco andò fuori di testa e fu trasferito nel manicomio criminale di Perugia per disturbi del contegno dove non fu possibile per nessuno avvicinarlo.
Due mesi prima dell’apertura del processo contro Valpreda e gli anarchici, Udo nonostante non avesse terminato di scontare la pena, fu accompagnato alla frontiera con l’ordine di non mettere più piede in Italia. I compagni della controinformazione, però, ritenevano la sua testimonianza fondamentale per scagionare gli anarchici e tentano in tutti i modi di rintracciarlo.
Ci riuscirono Manrico Pavolettoni e Roska Oskardottir, un’artista islandese, una femminista che varrebbe la pena conoscere più a fondo perché è un personaggio fantastico purtroppo ancora inedito in Italia. Nel libro viene raccontata anche la sua storia, la sua arte, le sue battaglie per i diritti civili, le sue prese di posizione, le sue performance politiche come quella durante un festival in onore del premio nobel per la letteratura islandese Haldor Laxness o il blitz nella base aerea della marina americana di Keflavik: entrò nello studio televisivo e interruppe le trasmissioni per una buona mezz’ora spruzzando vernice rossa sulle lenti delle telecamere e sui muri.
Tornado alla storia di Udo, Roska e Manrico trovarono il tedesco, riuscirono a parlarci (Roska rimase anche vittima di uno strano agguato) e a convincerlo a tornare in Italia a raccontare ai giudici istruttori del processo su piazza Fontana e le bombe di Roma quello che aveva visto. Udo con mille problemi e disavventure arrivò a Milano alla fine di luglio: in cinque giorni raccontò ai magistrati cinque versioni differenti della sua storia cadendo in palesi contraddizioni, sostenne tutto e il contrario di tutto, al punto che i giudici lo incriminarono per calunnia e lo rispedirono in Germania. Dal 4 agosto 1972 di sono perse le sue tracce.
Anche i compagni della controinformazione rinunciarono a cercarlo. Su di lui si erano addensati tanti e tanti infamanti sospetti che non fu più ritenuto così importante parlarci. Molti lo definirono un mitomane ma senza spiegare come facesse un mitomane tedesco di 23 anni a sapere così tante cose a meno di 24 ore dalle bombe. Altri ritennero che seppure avesse detto la verità ai carabinieri il 13 dicembre qualcuno fece in modo che la sua testimonianza venisse resa inattendibile, venne cioè messa in atto una strategia attraverso la quale la reputazione di Lemke fosse talmente pregiudicata da non poter più essere presa in considerazione.
Oggi a distanza di 46 anni sarebbe interessante sapere, al di là della sentenza della Cassazione, che ruolo abbia avuto Udo nella preparazione degli attenti e anche nell’inchiesta. Di certo c’è che le ritrattazioni così clamorose, quella confusione creata attorno alle piste nere fu molto utile a quanti volevano sviare le indagini dai veri responsabili della strage.
Udo è un personaggio marginale ma se si analizza il suo comportamento ci imbattiamo in tante e tali stranezze che sembrano pianificate a tavolino: è un personaggio che spunta fuori dal nulla, riesce a spostarsi con grande facilità per trovarsi in situazioni che meriterebbero di essere chiarite; sparisce, riappare, parla e poi ritratta, passa per pazzo ma dice cose che alla fine la Cassazione ha dovuto in qualche modo ammettere. Il giorno dopo gli attentati aveva già indicato la pista nera, già aveva parlato dei rapporti tra la mafia e l’estrema destra, già aveva parlato di quel piano eversivo che verrà rivelato solo mesi dopo. Il giorno dopo le bombe aveva già scagionato gli anarchici.
di DNA

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